Fahrenheit 365 è un cantiere di scrittura, nel senso che si sa quando si comincia, ma non si sa quando finisce. L’anno accademico inizia a ottobre e termina a luglio, ma si può iniziare in qualunque momento. Il Cantiere non chiude mai: nei mesi estivi si lavora a...

Vecchio Odeon

Ormai è rimasto solo nella grande sala buia, la macchina da presa ha smesso di proiettare la sua luce, il telo è tornato candido. Nessuno più si muove in quello schermo che ha visto grandi baci, sparatorie, indiani correre a cavallo e soldati in divisa ad inseguirli, corpi sinuosi muoversi in appassionati balletti d’amore.
 
Ora è tutto finito.
 
Lui stava seduto lì, in ultima fila, a pensare che non sarebbe stata solo quella vecchia sala a mancargli, che non avrebbe rimpianto il guadagno, che aveva visto diminuire giorno dopo giorno, no, no, non era quello, assolutamente no.

Era oramai la sua vita a scivolargli dalle mani, era vecchio, di quella vecchiaia che puoi avere anche a trent’anni, certo lui ne aveva di più e per intenderci non erano gli anni veri quelli che gli pesavano. Restò seduto per non so dirvi nemmeno quanto, nel seggiolino centrale dell’ultima fila. Non pensate a quelle comode dei nuovi multisala ma a quelle in legno, logore e rumorose che scricchiolano quando ti muovi e fanno un frastuono infernale quando ti alzi perché il sedile a molla va a sbattere nella spalliera, e non una sola volta ma due e alcune volte tre.

Era lì ad assaporarsi il suo ultimo spettacolo.

Nella sala buia e silenziosa.

Chiuse gli occhi e in un attimo ritornò con la mente a molti anni prima, sentì l’odore fresco e pungente del legno delle seggiole il giorno che le portarono, un odore ANTICO, allora erano nuove e perfettamente silenziose. Non avrebbe mai più sentito quell’odore. Tornò ancora più indietro ed ebbe l’immagine lucida di quando confessò a suo padre l’assurda idea di aprire un cinematografo, nelle orecchie gli rimbombò la risata aspra come i limoni verdi di Maggio e poi, immediatamente dopo, la risposta: “figliolo, prima o poi mi farai morire dal ridere per queste tue idee strampalate” e poi ridendo “quando lo apri ricordati di riservarmi un posto nella prima fila”, purtroppo non ebbe mai la sua rivincita, il padre se lo portò via la poliomelite ancor prima che lui fosse uomo. Ma vi posso garantire che dietro lo schienale del seggiolino centrale della prima fila trovate una targa in ottone, non molto grande, se la luce è accesa potete tranquillamente leggervi “Posto riservato” e poco sotto “a mio Padre”.

Era un tipo di parola Lui.Come quando disse a mia madre, allora la sua fidanzata, “la tua vita sarà un film” e lei certo non poteva sapere che quella non era una romantica promessa quanto piuttosto una verità pesante, ancora oggi quando è in buona lei lo racconta con un sorriso amaro sulle labbra, povera donna.

Aprì di colpo gli occhi e vide danzare Fred e Ginger, ma non sullo schermo, li vide danzare nel palco veri come la sua carne e le sue ossa. Rimase immobile, come se avesse paura che un minimo movimento potesse farli dissolvere nel nulla. Pensò, credo, di essere pazzo ma non provò nemmeno a stropicciarsi gli occhi. Erano lì e ballavano; ballavano una musica che lui aveva dentro ma che non arrivava alle orecchie, si muovevano come una cosa sola, come se fossero guidati dalle mani del burattinaio più esperto del mondo, dalle mani di Dio. A un certo punto pensando di essere morto e che fosse in quel Paradiso che non credeva di essersi mai meritato fece un batter di ciglia e scomparirono.

Scomparirono così come erano comparsi.

Piangeva e non sapeva perché, non capiva nemmeno se erano lacrime di gioia o di dolore, però erano parecchie. Le stesse che piangeva ogni volta che, nel raccontarmi questa storia, arrivava a questo punto.

Quel giorno era l’ultimo giorno che il cinema Vecchio Odeon vedeva al suo interno una persona, e mio padre decise che era giusto fosse lui, lui da solo ad andare, ad abbassare le saracinesche e a mettere le catene ai cancelli.

Per sempre.

Oramai era dentro da alcune ore, aspettava solo il momento giusto per decidere, o forse sarebbe meglio dire convincersi, che era finita.

Ad un tratto si alzò con un gesto felino, che non si confaceva alla sua età, e si diresse verso la sala di proiezione, con passo deciso senza fare caso a nulla di quello che aveva intorno. Deciso come una moglie all’altare, perlomeno ai suoi tempi era così.

Uscì dalla sala, al buio percorse il corridoio sino alla fine, arrivò alla piccola porta, quasi invisibile, ricoperta dello stesso velluto amaranto delle pareti, la fece scorrere di lato e prese la piccola scala a chiocciola che portava dritta verso la saletta.

La saletta di proiezione è sempre stata la mia preferita, mio padre mi ci portava solo raramente, lui diceva fosse pericolosa ma io credo che quella stanza fosse l’unico luogo al mondo dove poteva SENTIRSI.

Per lui fare quel percorso era un rito.

E quel lavoro non era un lavoro ma un gesto di bontà verso coloro che, seduti nelle poltrone, fissavano in trepidante attesa le luci e lo schermo bianco, lui le guardava dal piccolo foro quadrato della sala e il tempo dell’inizio del film era sempre diverso, potevano passare alcuni secondi o pochi minuti o anche una mezz’ora. Non ho mai capito quale fosse la logica con cui decideva i tempi e se devo essere sincero non ho nemmeno mai provato a fare quella domanda. Forse perché la sua risposta sarebbe stata diversa dalla mia domanda o forse perché mi avrebbe detto che non era lui a decidere i tempi ma che erano i tempi a dirgli che era giunto il momento.

Sì, era un po’ filosofo, un po’ folle e un po’ sognatore.

Arrivato nella sala la guardò attentamente, con gli occhi di un padre che guarda il figlio quando il figlio non lo vede, lucidi e pieni di lacrime d'orgoglio. La ispezionò palmo a palmo. Era ormai vuota, erano rimaste solo alcune pizze vuote e un seggiolino semi distrutto. Lo prese e lo posizionò accuratamente davanti al foro di proiezione si sedette e vide sotto di lui una miriade di teste che si giravano agitate, subito dopo un lieve vociare, un’altra volta la sua testa gli stava facendo degli strani scherzi. Scherzi strani ma piacevoli pensò. Ad un tratto il fascio di luce del proiettore inondò lo schermo e senti forte nel suo orecchio destro il rullare della macchina, un brivido lo attraversò nuovamente e quella era l’unica cosa vera che sentì.

Raccontava questa storia ogni qual volta ne aveva l'occasione ed ogni volta era sempre più vivo il ricordo e sempre più forte l'emozione, credo la raccontasse perchè era un uomo generoso, il più generoso che abbia conosciuto. Amava che la gente pendesse dalle sue labbra, e la gente gli regalava quella sensazione, perchè anche se tutti avevano già sentito quel racconto non era possibile non farsi rapire dal modo sempre nuovo di raccontarlo.

Era ogni volta la stessa storia ed ogni volta era diversa.

Alcune parti le riservava a pochi eletti, degni della profondità delle sue emozioni, come per esempio la parte in cui chiuse per sempre il Nuovo Odeon.

E' ormai tardi, fuori il buio ruba il tempo alla luce e la moglie, mia madre, lo aspetta per cena, quel giorno è un giorno speciale, triste per tutti.

Gli preparò polenta con funghi e grive, forse perché mangiasse o forse perché potesse non pensare, aprì per tempo il vino migliore che era destinato al prete, che avrebbe dovuto farne a meno, almeno per quella volta.

Era dietro il banco della biglietteria a controllare che tutto fosse in ordine, non ho mai capito per  cosa dovesse essere in ordine ma anche quella rimase una domanda senza risposta. Prese la locandina piccola  di Via Col Vento, quella con Clark che abbraccia Vivian in uno sfondo rosso fuoco, la arrotolò con cura, come fosse una missiva papale, uscì dal gabbiotto e chiuse a chiave. Percorse i pochi metri che lo separavano dall'ingresso e senti il vociare della gente che entrava per lo spettacolo della sera, pronti ad assistere ad un nuovo sogno d'amore o una nuova avventura, però non vide nessuno; arrivato davanti alla serranda si voltò e vide quello che non aveva mai visto: suo padre in piedi davanti a lui che lo guardava sorridente, lo sentì parlare bravo, hai portato avanti il tuo sogno, scusa se non ti ho ascoltato e se non ti ho dato credito, ora so di aver cresciuto un uomo che è stato capace di restare bambino.

Piangeva mentre lo diceva e mio padre piangeva mentre lo ascoltava.

Uscì e chiuse con un colpo secco la saracinesca, si inchinò, girò la chiave per l'ultima volta e appese il cartello CHIUSO.  Si voltò e tornò a casa.

Quella fu la cena più silenziosa mai fatta a casa mia. Mio padre stette così per alcuni giorni, poi riprese e si riprese, il suo cinematografo continuava a vivere con la sua storia. Morì un anno due mesi e tre giorni dopo la chiusura del Vecchio Odeon e l'ultima cosa che fece nei suoi ultimi attimi fu raccontare la sua storia a me per l'ennesima volta, fissando la locandina di Via Col Vento che aveva appeso sopra il letto, di fianco al crocifisso, dandomi le chiavi della sua fantasia. 
Nicola Mameli

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