racconto di Maria Grazia Grosso
“Tuo padre è morto, Vincè”. Sono ancora in ufficio, quando ricevo la telefonata.
Mentre ripongo la cornetta, infilo le mani in tasca in cerca del mio amuleto e mi ritrovo bambino.
La mia pelle era scura, dove vivevo c’era molto sole e poca acqua per lavarsi. Avevo grandi occhi per la voglia di guardare il mondo. Ero scalzo anche d’inverno e i miei giochi erano palle fatte di giornale. Cacciavo fringuelli e mi arrampicavo sugli alberi.
Accompagnavo mio padre ovunque per imparare i mestieri e per sostenerlo nel caso ne avesse avuto bisogno. Non mi pesava. Amavo mio padre, uomo buono capace di parole piene di luna, di sorrisi caldi di sole, e carezze morbide come il pane.
Quella mattina piovosa e fredda, partimmo per andare dalla Signora.
“Trasite, trasite”. Una voce roca ci invitò ad entrare in una stanza.
Mentre ripongo la cornetta, infilo le mani in tasca in cerca del mio amuleto e mi ritrovo bambino.
La mia pelle era scura, dove vivevo c’era molto sole e poca acqua per lavarsi. Avevo grandi occhi per la voglia di guardare il mondo. Ero scalzo anche d’inverno e i miei giochi erano palle fatte di giornale. Cacciavo fringuelli e mi arrampicavo sugli alberi.
Accompagnavo mio padre ovunque per imparare i mestieri e per sostenerlo nel caso ne avesse avuto bisogno. Non mi pesava. Amavo mio padre, uomo buono capace di parole piene di luna, di sorrisi caldi di sole, e carezze morbide come il pane.
Quella mattina piovosa e fredda, partimmo per andare dalla Signora.
“Trasite, trasite”. Una voce roca ci invitò ad entrare in una stanza.
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