Fahrenheit 365 è un cantiere di scrittura, nel senso che si sa quando si comincia, ma non si sa quando finisce. L’anno accademico inizia a ottobre e termina a luglio, ma si può iniziare in qualunque momento. Il Cantiere non chiude mai: nei mesi estivi si lavora a...

Attraverso il riflesso

Attraverso il riflesso - racconto di Nicolò Corda
(Ultimo giorno nella sede di vico I dei Genovesi)


Su un muro intonacato bianco, tappezzato da crepe, l’unico elemento che risalta è una cornice in legno laccata in oro, vuota. Subito mi salta all'occhio la contrapposizione tra la bella cornice e il muro scrostato. Le travi in legno che compongono il soffitto, poste proprio sopra la cornice, alimentano l’aria retrò della scena, senza far mancare eleganza e raffinatezza. Dominano colori lievi, candidi, il marrone chiaro delle travi si sposa con l’oro della cornice e il bianco del muro. Un ménage à trois cromatico che non passa inosservato. Ciò che però distoglie l’attenzione dall'equilibrio della parete è il contenuto della cornice: niente, ovvero tutto. Chiunque, come me, sarebbe capace di fantasticare sulle immagini che potrebbe contenere, ma senza alcun indizio queste sono flebili, eteree, pensieri lasciati al caso. 
Del resto è un problema del genere umano: il bisogno di risposte. Nel momento in cui ci viene posto davanti un foglio bianco e ci viene detto di scrivere, senza alcuna traccia, noi potremmo scrivere tutto e niente. Le varianti si accavallano e spintonano nella testa, cercano tutte immeritatamente un posto all'interno della cornice, pur in assenza di un vero e proprio metro di giudizio.
Ciò mi spinge a pensare: e se davvero la cornice fosse vuota? Se lo spazio lasciato all'immaginazione fosse così vasto da non poter contenere nient’altro che la realtà? Alla fine l’uomo, nel suo argomentare con se stesso alla ricerca della scelta migliore, spesso, non fa altro che confermare la realtà.
Nell'attesa decido di girarmi una sigaretta, poi di accenderla. Mi alzo con l’intenzione di affacciarmi alla cornice e specchiarmi nel vuoto. Sorprendentemente la mia sagoma non è che un’ombra che traspare dallo scenario, un contorno nero che leva spazio alla sala, ben riflessa nella cornice. Ero convinto che ciò dovesse parlare di me, che specchiandomi nel vuoto avrei ritrovato qualche latente pezzo di me che tardava a farsi spazio nei miei ricordi. Ma non è così. Spesso mi sbaglio. Ciò non può fare a meno di richiamare i momenti più tristi della mia vita, quelli in cui mi sono sentito invisibile. 
Avrei voluto urlare, spesso l’ho fatto, spesso ho sbottato distruggendo ogni cosa e reclamando un po’ di attenzione. Sembra quasi di vederli, nello sfondo, messi in risalto dalla luce: i miei amici, la mia famiglia. Un quadro ordinato e composito che ostacolo con la mia sola presenza. Più volte mi è capitato di sentirmi così, un ostacolo, a discapito di mio fratello o dei miei amici che sgomitavano alla ricerca di un po’ di approvazione dal gruppo. Io non ne ho mai avuto bisogno, forse è stato questo il mio errore, non ho mai avuto bisogno di altri e loro non hanno mai avuto bisogno di me. È un pensiero nefasto, il peggiore che mi possa venire in mente, non riuscire a lasciare il segno, essere solo un’impronta sulla sabbia che, prima o poi, qualcuno chiederà chi l’ha lasciata. Ma a me non basta, io voglio esplodere. Del resto, quanto può interessare un’esplosione se nessuno ci fa caso?
Ricordo il momento esatto in cui mi sono sentito così: ero in viaggio a Firenze con i miei genitori e mio fratello, sulla via del ritorno un breve disguido con le valige m’inasprì, portandomi a pensare di essere invisibile agli occhi dei miei stessi genitori. 
Sembra quasi di vederlo quell'istante, intrappolato dalla cornice. Io, davanti a tutti, che cammino veloce, per aumentare la distanza dalla mia famiglia, che, lenta sullo sfondo, sbraita contro di me. Mi notano, sì, ma io faccio il possibile per ignorarli. È un ciclo continuo, finché qualcuno non decide di mollare, di non stare più al gioco e lasciare che la distanza si trasformi in un baratro. 
Sono a ridosso della cornice, sul filo dell’immaginazione, pronto ad entrarci e a modificare a mio piacimento il dipinto che ho raffigurato al suo interno. Ma voglio veramente che sia così? Voglio avere la possibilità di cambiare il mio passato? Anche solo per gioco, è una prospettiva che mi terrorizza. Come posso risultare la stessa persona se modifico la mia vita? Se levo i momenti tristi, ottimizzando lo spazio. Non funziona così, non è il modo esatto di far scorrere il tempo. Ogni momento è fondamentale e parte integrante del risultato, le gioie allo stesso modo dei dolori. Sebbene riesca a percepire l’asprezza, rinchiusa in quella cornice, non sono pronto a levarla, anzi la lascio lì, vuota, nella speranza che possa riempirsi al meglio. Un trucchetto escogitato per tenere a mente chi sono. Tutto sommato non mi dispiace chi sono diventato, perché, ora come ora, non sono mai stato così vicino a me stesso. 
Sento la cornice scalpitare, mi avvicino, poi, d’un tratto, manca la luce. Rimaniamo solo io e il mio riflesso sempre più debole. Niente dello sfondo ora si trova all'interno della cornice, guardo dentro ai miei occhi, ma non sono i miei, quel ragazzo, non sono io, ma quel che ero, proprio quel giorno, a Firenze, attanagliato dalla paura di essere solo. Lui mi ispeziona con fare discreto, quasi compiacendosi di aver trovato un’anima affine. Io rivedo in lui le speranze, i sogni, ma soprattutto la rabbia che spesso lo trasforma. È una vittima di se stesso e lo sa bene, non riesce ad imporsi, ma sogna di raggiungersi il prima possibile.
“Come stai?” mi chiede a bruciapelo, “Sei felice?”, io resto impassibile, ignorando quale sia la risposta corretta. “Ancora non riesci a smettere di pensare. Come puoi non fidarti di me? Non c’è niente che tu non sappia già”, sento comprensione nelle sue parole, mista a rammarico, “Non devo illudermi, non è vero? Niente andrà come sperato”, sembra voler scomparire nel buio, disilluso come, del resto, è abituato ad essere.
“Non è così”, gli dico, “Non tutto andrà male. Forse non avrai una persona al tuo fianco, forse non tutto andrà come previsto, ma hai proseguito nel tuo cammino, a testa alta. Ora stai inseguendo il tuo sogno, con la tenacia di cui siamo capaci, hai amici fidati che ti sostengono e così pure la tua famiglia. Hai ripreso a suonare, l’avresti mai detto? Dovrai convivere con la solitudine per un po’, questo sì, e con l’apatia che genera. Ma hai presente tutte le volte che non riuscivi a capire cosa volessi veramente? Non è più così, ora conosci i tuoi obbiettivi, non sei più disposto a farti usare, e non dai di matto come tuo solito, almeno non più tanto spesso”. 
Rassicurato dalle mie parole il riflesso sorride, tornando ad essere solo il semplice riflesso di me.
In un lampo torna la luce, siedo al tavolo, tra le mani ho un foglio su cui scrivo assiduamente. Giorgio, il mio maestro di scrittura, si allontana dagli interruttori, dirigendosi verso di me. È l’ultima lezione di scrittura creativa nella sede di Castello, presto ci espanderemo e, forse, l’armonia familiare che si è creata scomparirà in parte. Questo luogo è stato il primo ad avermi ospitato quando ho deciso di intraprendere questa strada. Ero spaventato dai miei sogni, ma il clima stimolante dell’Accademia mi ha cullato. Il compito era di ritrovare me stesso dentro quella cornice e di imprigionarlo sul foglio. La scrittura riesce sempre a tirare fuori quelle parti di me che cerco di tenere nascoste e Giorgio, in quanto scrittore, questo lo sa bene. Mi sento diverso, eppure la stessa persona, consapevole di voler proseguire per la mia strada. Giorgio mi congeda, la prossima lezione sarà nella nuova sede, lavoreremo alla presentazione dell’antologia in uscita, focalizzati più che mai sul nostro obbiettivo. Ecco, da quel momento in poi, quando leggero di fronte a quei volti sconosciuti i frammenti di ciò che sono, proprio da quel momento, sono certo che inizierà il resto della mia vita.

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