Fahrenheit 365 è un cantiere di scrittura, nel senso che si sa quando si comincia, ma non si sa quando finisce. L’anno accademico inizia a ottobre e termina a luglio, ma si può iniziare in qualunque momento. Il Cantiere non chiude mai: nei mesi estivi si lavora a...

Astro del ciel (Silent night), 2:43

Racconto di Elisa Demartini

Se ci aveste visto, quella tarda sera di gennaio, vi sareste domandati se fossimo molto strani, oppure molto stupidi. Per fortuna, non passò nessuno, o, perlomeno, a questo pervenimmo poi entrambi, per consolarci.
Oreste ed io, seduti su di una gelida panchina in ghisa, ignoravamo i tetri neri gorghi del mare di notte, che si stagliava pochissimi metri di fronte, per guardarci, imbarazzati, i piedi.
Continue raffiche di tramontana (secondo me) o di maestrale (secondo lui) ci torturavano le schiene con carezze freddissime: battevamo ormai già da un po’ i denti, io deprecando l’inutile eleganza del mio montgomery leggero, Oreste sicuramente facendo altrettanto contro la comoda futilità della propria felpa.
Il gelo dell’imbarazzo faceva causa comune con le condizioni meteorologiche: tacevamo entrambi già da diversi minuti, perché, dopo i convenevoli, piombammo entrambi in quella afasia grottesca. E dire che lo scopo dell’appuntamento era quello di incontrarsi per parlare.
Se ci aveste visto, quella tarda sera di gennaio, vi sareste domandati se fossimo molto strani, oppure molto stupidi, a sopportare quegli umido e freddo ingrati, per starcene zitti zitti, a testa bassa, alle estremità opposte di una panchina.
Un sonoro brontolio, proveniente all'improvviso dallo stomaco di Oreste, scalfì il ghiaccio di quel silenzio; il fragore della risata, con cui commentai l’accaduto, lo ruppe poi del tutto.
“Il rumore della pancia che brontola è un chiaro segno di disagio, se non di fame.” sentenziai infine, beffardo, con le parole ancora spezzettate dai postumi del riso.
“Non ho cenato”, si giustificò, fulmineo, Oreste, nel più totale imbarazzo. Se il buio non fosse stato così intenso, avrei sicuramente potuto ammirare il suo viso virare dal rosa, al fucsia, fino al paonazzo.
Erubesco è un verbo latino che indica l’arrossire, o meglio, la gradualità con cui si diventa rossi. Ecco, io avevo questa passione, crudele e maledetta, per osservare il viso di Oreste erubescere: come quei filmati, di pochi secondi, in cui si mostra, accelerata la maturazione di un frutto, o lo sbocciare di un fiore.
E così io, infame per questa mia voglia egoista, mi divertivo a stuzzicarlo: “Come mai non hai cenato?”, gli chiesi, simulando l’esaurimento della mia ilarità. Ma conoscevo già la risposta: “Avevo l’ansia…”, confessò, infatti.
Non riuscii a trattenermi, e scoppiai di nuovo a ridere, pavoneggiandomi: “Allora avevo intuito bene, eh?”
Oreste accettò, tirando un sospiro, anche quella sconfitta, e distolse l’attenzione da se stesso, per volgerla verso lo spettacolo che, da un po’, nonostante lo ignorassimo, si svolgeva sopra le nostre teste vuote: il vento aveva ripulito il cielo da ogni nube, permettendo che le gemme degli astri sfilassero, vanitose, davanti ai nostri occhi.
“Tu che costellazioni conosci?”, chiese. “Nessuna, purtroppo: me ne indicheresti qualcuna tu?”
Oreste ricadde nel pallone: non si era reso conto che, la sua domanda, così formulata, mi avrebbe potuto far presumere che lui, di costellazioni, se ne intendesse.
Di fronte all’ennesima figuraccia, non risi, perché non era sicuramente la prima occasione in cui mi trovassi in una simile situazione, tanto che ne avevo scritto, qualche mese prima, una poesia in merito. Decisi di recitargliela, perché, in fondo, si addiceva perfettamente al momento:
“Null’altro che invidia / per antenati antichissimi / di cui schiave / erano le stelle / unisce le figure / sotto i fori luminosi / del cupo velluto / del cielo notturno.”
Oreste, piacevolmente preso alla sprovvista, commentò, interessato: “Carino, di che si tratta?” “Una cosina che ho scritto un po’ di tempo fa.”
Oreste si rabbuiò, di nuovo, per la vergogna: detestava non saper riconoscere al volo lo stile dei miei scritti, che rientrava nel più generale odio per il fatto che io riuscissi a comprenderlo e prevederlo molto meglio di quanto non accadesse viceversa.
E dire che, proprio in casi come questo, era più che perfettamente giustificato, dato che solevo torturarlo con sproloqui di citazioni di ogni tipo: più sovente non mie, il che rendeva la farina del mio sacco difficile da distinguere al volo da quelle prodotte nei mulini altrui.
Oreste, intanto, si era rannicchiato in posizione fetale, per proteggersi dalle punture dei geli della temperatura e dell’imbarazzo.
Impietosendomi, tagliai corto: “Ehi, andiamo a casa? Inizia a far freddo davvero.”
Ruotai il busto, ed allungai la mano verso di lui, come per avvicinargliela, ma senza che ciò accadesse, trattenendola ad appoggiarsi su una delle strisce in ghisa che componevano la panchina.
Oreste rimase a fissare, prima il mio movimento, poi l’estremità del mio arto, con uno sguardo commisto di piacere e terrore. Balzò quindi in piedi, e rispose: “D’accordo!”, piazzando un bel sorriso come punto esclamativo.
Anche io sorrisi, poi, entrambi, secondo la nostra prassi, ci girammo, e, continuando a darci le spalle, infine, ci salutammo: “Ciao, Oreste.” “Ciao, Roberto.”
Un’altra sera era trascorsa, senza che concludessimo niente, facendo finta di niente: ma, in fondo, in quel periodo, ci andava ancora bene così.
Una volta a casa, prima ancora di levarmi il cappotto, cercai il mio quaderno degli appunti, e corressi la coda della poesia, che avevo recitata poco prima: Unisce le figure / che vergognano a sfiorarsi / nelle notti / battute dal vento.


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