Fahrenheit 365 è un cantiere di scrittura, nel senso che si sa quando si comincia, ma non si sa quando finisce. L’anno accademico inizia a ottobre e termina a luglio, ma si può iniziare in qualunque momento. Il Cantiere non chiude mai: nei mesi estivi si lavora a...

Presagi

testo di Riccardo Montanaro

Lo squillare prepotente del telefonino mi svegliò di soprassalto, bocca semiaperta, bava colante, occhi sbarrati e attoniti. La parete che mi ritrovai a fissare appariva livida, mobile, effetto spettrale del display lampeggiante. Mi voltai a rilento e raccolsi il cellulare, si era fatto buio, probabilmente era quasi ora di cena e Marta, anziché trovarsi in cucina a prepararla, a quanto pareva era ancora in giro. Le risposi flemmatico, la voce impastata, ma un brivido mi percorse tutto il corpo gelandomi quando la sentii singhiozzare. Il suo pianto convulso sembrava arrivare da lontano, come un’eco distorta, e fu come trovarsi sospesi sull'orlo di un precipizio. Non potevo far altro che balbettare sommessamente il suo nome, perché qualunque altra interferenza avrebbe spezzato l’equilibrio e saremmo caduti giù. Poi di colpo ammutolì e su di noi cadde un silenzio che sapeva di sciagura imminente. In quell'attesa, che a me parve interminabile, non potevo muovermi, non riuscivo nemmeno a deglutire.
Quella domenica, uno splendido mal di schiena mi aveva piegato in due. Mentre, a testa china, scorrevo velocemente i numeri della rubrica, Marta si era avvicinata morbidamente e aveva cominciato a massaggiarmi le spalle implorandomi di non farlo, almeno stavolta, di non ricominciare con quella storia. Non volendo mi concessi a lei, ma solo per poco, avevo chiuso gli occhi e mi ero goduto il dolce sollievo che mi procurava ai muscoli, finché non l’avevo scansata bruscamente, dicendole che non era proprio il momento, che non capiva quanto la cosa per me avesse importanza. Le avevo sorriso portandomi il cellulare all'orecchio e lei era uscita di casa sbattendo la porta.
Per confermare la mia tesi, avevo chiamato amici e parenti, chiedendo loro se per caso fosse capitato qualcosa di grave. Ero andato avanti così tutto il pomeriggio. La casa era diventata una centrale operativa, c’erano dieci me che si muovevano rapidi in vestaglia e pantofole, esaltati, efficienti come centralinisti navigati, chiamavano domandavano liquidavano in fretta appuntavano depennavano e richiamavano. Un’organizzazione perfetta, sincronizzata. Avevo l’orecchio in fiamme, i muscoli della schiena annodati e contratti, mi stavo ingobbendo sempre di più ma non importava, il mio ego aveva fame e dovevo saziarlo. Tuttavia, a ogni telefonata, il mio entusiasmo andava scemando, in quanto quel giorno, chissà perché, avevano tutti deciso di stare bene. Eppure, le altre volte avevo sempre trovato un riscontro. Quando Francesca, per esempio, si era slogata la caviglia, o quando Paolo aveva fuso il motore prima di partire in vacanza, o lo stesso quando Giuseppe si era schiantato con gli sci, tutte le volte avevo mal di schiena. Almeno un graffietto, una storta, un dito del piede sbattuto sull'angolo del comodino, mi sarebbe bastato che qualcuno si procurasse anche solo un taglietto per adempiere al mio scopo, e invece, ancora niente. Intanto il dolore era diventato insopportabile, un grosso artiglio mi si era aggrappato alle scapole incurvandomi come un lampione e costringendomi a sdraiarmi sul letto per una pausa. Avevo ripassato mentalmente le persone a cui dovevo ancora telefonare finché, stanco ma non arreso, mi ero addormentato.
La sua voce mi arrivò stridula, un’unghia che graffia la lavagna, fu allora che Marta ruppe il silenzio e io persi l’equilibrio volando giù nel precipizio. Caduta libera, contraccolpo finale doloroso. Mi disse che Giovanna, una nostra cara amica, aveva subìto un brutto incidente. Con difficoltà buttai giù la saliva accumulata e trassi un profondo sospiro. Una parte di me quasi si vergognò di sentirsi così sollevata, l’altra si sarebbe presa volentieri a pugni.
Un mese dopo, sempre di domenica, venne a farmi visita un favoloso mal di schiena. Come da buona abitudine afferrai il cellulare e iniziai a scorrere febbrilmente i numeri della rubrica, ma dopo aver fatto partire la prima chiamata, mentre una voce dall'altra parte continuava a chiedermi se ero in linea, il mio sguardo si posò su Marta che dormiva serenamente. Abbassai il braccio chiudendo la chiamata. La vedevo, ma non come semplicemente si può guardare un’altra persona, questa volta io la Vedevo. Andai a frugare nell'armadietto del bagno e trovai la scatola di aspirine, ne buttai giù una. Nessun precipizio, nessuna caduta libera, che le cose andassero da sole. Nel frattempo, con la schiena che continuava a farmi un po' male, le preparai la colazione e gliela portai a letto.


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