testo di Riccardo Montanaro
Lo squillare
prepotente del telefonino mi svegliò di soprassalto, bocca semiaperta, bava colante,
occhi sbarrati e attoniti. La parete che mi ritrovai a fissare appariva livida,
mobile, effetto spettrale del display lampeggiante. Mi voltai a rilento e
raccolsi il cellulare, si era fatto buio, probabilmente era quasi ora di cena e
Marta, anziché trovarsi in cucina a prepararla, a quanto pareva era ancora in
giro. Le risposi flemmatico, la voce impastata, ma un brivido mi percorse tutto
il corpo gelandomi quando la sentii singhiozzare. Il suo pianto convulso
sembrava arrivare da lontano, come un’eco distorta, e fu come trovarsi sospesi sull'orlo di un precipizio. Non potevo far altro che balbettare sommessamente
il suo nome, perché qualunque altra interferenza avrebbe spezzato l’equilibrio
e saremmo caduti giù. Poi di colpo ammutolì e su di noi cadde un silenzio che
sapeva di sciagura imminente. In quell'attesa, che a me parve interminabile,
non potevo muovermi, non riuscivo nemmeno a deglutire.
Quella domenica, uno
splendido mal di schiena mi aveva piegato in due. Mentre, a testa china, scorrevo
velocemente i numeri della rubrica, Marta si era avvicinata morbidamente e aveva
cominciato a massaggiarmi le spalle implorandomi di non farlo, almeno stavolta,
di non ricominciare con quella storia. Non volendo mi concessi a lei, ma solo
per poco, avevo chiuso gli occhi e mi ero goduto il dolce sollievo che mi
procurava ai muscoli, finché non l’avevo scansata bruscamente, dicendole che non
era proprio il momento, che non capiva quanto la cosa per me avesse importanza.
Le avevo sorriso portandomi il cellulare all'orecchio e lei era uscita di casa
sbattendo la porta.
Per confermare la mia
tesi, avevo chiamato amici e parenti, chiedendo loro se per caso fosse capitato
qualcosa di grave. Ero andato avanti così tutto il pomeriggio. La casa era diventata
una centrale operativa, c’erano dieci me
che si muovevano rapidi in vestaglia e pantofole, esaltati, efficienti come
centralinisti navigati, chiamavano domandavano liquidavano in fretta
appuntavano depennavano e richiamavano. Un’organizzazione perfetta,
sincronizzata. Avevo l’orecchio in fiamme, i muscoli della schiena annodati e
contratti, mi stavo ingobbendo sempre di più ma non importava, il mio ego aveva
fame e dovevo saziarlo. Tuttavia, a ogni telefonata, il mio entusiasmo andava scemando,
in quanto quel giorno, chissà perché, avevano tutti deciso di stare bene. Eppure,
le altre volte avevo sempre trovato un riscontro. Quando Francesca, per
esempio, si era slogata la caviglia, o quando Paolo aveva fuso il motore prima
di partire in vacanza, o lo stesso quando Giuseppe si era schiantato con gli
sci, tutte le volte avevo mal di schiena. Almeno un graffietto, una storta, un dito
del piede sbattuto sull'angolo del comodino, mi sarebbe bastato che qualcuno si
procurasse anche solo un taglietto per adempiere al mio scopo, e invece, ancora
niente. Intanto il dolore era diventato insopportabile, un grosso artiglio mi
si era aggrappato alle scapole incurvandomi come un lampione e costringendomi a
sdraiarmi sul letto per una pausa. Avevo ripassato mentalmente le persone a cui
dovevo ancora telefonare finché, stanco ma non arreso, mi ero addormentato.
La sua voce mi arrivò
stridula, un’unghia che graffia la lavagna, fu allora che Marta ruppe il
silenzio e io persi l’equilibrio volando giù nel precipizio. Caduta libera,
contraccolpo finale doloroso. Mi disse che Giovanna, una nostra cara amica, aveva
subìto un brutto incidente. Con difficoltà buttai giù la saliva accumulata e
trassi un profondo sospiro. Una parte di me quasi si vergognò di sentirsi così sollevata,
l’altra si sarebbe presa volentieri a pugni.
Un mese dopo, sempre
di domenica, venne a farmi visita un favoloso mal di schiena. Come da buona abitudine
afferrai il cellulare e iniziai a scorrere febbrilmente i numeri della rubrica,
ma dopo aver fatto partire la prima chiamata, mentre una voce dall'altra parte
continuava a chiedermi se ero in linea, il mio sguardo si posò su Marta che
dormiva serenamente. Abbassai il braccio chiudendo la chiamata. La vedevo, ma non
come semplicemente si può guardare un’altra persona, questa volta io la Vedevo. Andai a frugare nell'armadietto del bagno e trovai la
scatola di aspirine, ne buttai giù una. Nessun precipizio, nessuna caduta
libera, che le cose andassero da sole. Nel frattempo, con la schiena che continuava
a farmi un po' male, le preparai la colazione e gliela portai a letto.
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